sabato 31 ottobre 2015

*** RACCONTO N. 17: GUFI ***




Racconto tratto dalla poesia "I Gufi" di Charles Baudelaire

Nel tornare a casa quando il sole è calato ormai da tempo e le strade si sono svuotate del chiacchiericcio della folla e si sono riempite delle tenebre, non è raro ascoltare in lontananza un suono veloce ma scandito e più volte ripetuto nell’ombra. Non è possibile capire da dove arriva ma lo si percepisce come se un qualche dio parlasse al mondo direttamente dal cielo. Sono le creature della notte che, in quel momento, si animano e, probabilmente, lodano l’assenza di rumori e partecipano a un mondo che è solo per i pochi che sanno apprezzarne la tranquillità e il silenzio.

Certamente non possiamo comprendere cosa vogliano dire i gufi con il loro bubolare! Alle nostre orecchie quei versi appaiono troppo simili, se non uguali, nelle loro diverse sequenze. Ma, come ho già detto, sono convinto che, in quel momento, non stiano facendo niente di diverso che tessere le lodi dell’ordine della notte! Leopardi e Foscolo non sono i soli autorizzati a celebrare la luna e la sera! Ho cercato di documentarmi su queste strane creature attraverso qualcuno dei diversi libri che questi anni stanno partorendo a ritmi indescrivibili. Le ricerche scientifiche proliferano in maniera inimmaginabile e alcuni studiosi non hanno tralasciato gufi, allocchi, civette e barbagianni…

Ebbene, ho scoperto che, quando noi non possiamo notare questi animali, cioè nel corso della giornata, loro se ne stanno tranquilli su un albero… se ne stanno lì in silenzio e completamente immobili! Gli occhi, quando restano aperti, si muovono a destra e sinistra a ritmo irregolare, ma è come se dormissero poiché non emettono suoni. Meditano, questi attenti e silenziosi osservatori della realtà, meditano! Nessuno sa cosa passa per la loro testa! Ma, di certo, hanno capito che l’estraniarsi e il non mescolarsi con questo mondo è di gran lunga preferibile al partecipare a questa caotica società.

Un po’ come fanno anche gli albatros… che si divertono volando solitari e, nel momento in cui planano giù, divengono oggetto di scherno agli occhi dell’uomo che non può evitare di ridere di fronte a quella goffa bestiola. Anche i gufi hanno capito la cosa giusta da fare! Sarà una caratteristica di chi è in grado di volare! I gufi hanno capito che è meglio osservare la realtà quotidiana, studiarla nella propria mente, criticarla nel proprio animo anziché mescolarsi con essa. E quale vantaggio si avrebbe mai? Si sarebbe vittima di un fiume in piena che continua a travolgere l’uomo moderno facendo danni a destra e a manca.

È una società in perenne cambiamento… le strade sono piene di gente che va e che viene e pare che l’unico motivo di gioia sia il progresso! Vi è una frenetica ansia di cambiare… e, solo di notte, si apprezza davvero la tranquillità. Solo nel buio, luogo per ubriachi, sì, ma anche per gli spiriti eletti, ci si ritrova con se stessi prendendo le distanze da una società che si è smarrita e che ha iniziato a venerare il dio del progresso e della tecnologia. Pian piano l’arte conoscerà il suo tramonto e di noi poeti non rimarrà che un lontano e malinconico ricordo.

I gufi sono dei veri saggi: hanno preferito la pace e la tranquillità al caos, né sembrano intenzionati a cambiare le loro abitudini. Non è un caso che questo animale fosse caro ad Atena, la dea dell’intelligenza. Potessi essere un gufo: di giorno sarei lontano da rumori, urla, pettegolezzi, insulti e bassezze; di notte volerei libero con la consapevolezza di non dovermi mescolare con questo mondo!





giovedì 22 ottobre 2015

*** RACCONTO N. 16: L'APE ***

Tratto dalla poesia "Un'ape esser vorrei" di Torquato Tasso



Da qualche tempo una donna ha acquisito un diritto sul mio cuore e sulla mia stessa vita che nessun’altra ha mai avuto prima e, probabilmente, neanche io posseggo. È buffo e anche poco virile doverlo ammettere ma questa è la situazione in cui verso da settimane. Se lei volesse, potrebbe venire da me in qualunque momento, persino nel cuore della notte, e reclamare ciò che le spetta, ciò che inconsapevolmente e silenziosamente le ho voluto donare. Magari accadesse! Ma le speranze sono ormai ridotte al minimo a voler essere ottimisti!

Questa donna, infatti, mi appare tanto bella e dolce quanto crudele e senza scrupoli. Credo di non esser il primo a dire una cosa del genere… le pagine son piene ormai di queste parole: una maledizione per noi poeti! Comunque sia… i miei occhi si sono posati desiderosi sul suo corpo ma i suoi si sono voltati dalla parte opposta. Ho tentato di  rivolgerle qualche parola gentile ma la sua bocca ha emesso soltanto suoni freddi e brevi. Possiede una certa eleganza e un nobile portamento e ciò la rende ancora più incantevole e temibile. Con una donna del genere, l’uomo che avesse la fortuna di starle al fianco, le sarebbe sicuramente sottomesso. Ma a me è negato persino di accostarmici…

Non so cosa bisognerebbe fare per conquistare il tuo cuore. Non so di fronte a cosa capitoleresti. Non so se esista un uomo che possa tener testa alla tua inflessibilità. Certamente, quest’uomo non sono io… non ho la forza per sostenere il tuo sguardo profondo e imperioso, non sarei in grado di replicare alla tua parola ferma, sicura e, comunque, dolce. Sono troppo debole… potrei, però, riuscire a sfidarti se fossi qualcun altro, qualcos’altro… dovrei essere un’ape. Così piccola e quasi invisibile ti colpirei in una maniera non tanto diversa dalla tua: non mi scagli anche tu dolorosi  colpi invisibili?
Se fossi un’ape, ti seguirei per tutta la giornata ronzandoti attorno. Avrei la fortuna di vederti costantemente e di navigare lungo la scia del tuo profumo. Poi ti conoscerei meglio! Avrai anche tu dei punti deboli e delle fragilità su cui potrei focalizzare la mia strategia! Inoltre, seguendoti sempre e dappertutto, anche nei momenti più intimi della giornata non saresti mai da sola e ciò andrebbe tutto a mio vantaggio. Finalmente ammirerei ciò che si nasconde sotto quelle lunghe e ampollose vesti e, anche se non potrò averti, già solo questo sarà una piccola vittoria per me!

Forse questo è l’unico modo per averla vinta su di te. Me ne andrei, poi, prima che tu possa accorgerti o infastidirti per la mia presenza ma dopo aver lasciato un mio segno sul tuo corpo. Pensavi per caso che ti avrei lasciata andare senza averti sfiorata minimamente?! Affonderò il mio pungiglione sul tuo bianco seno… una piccola ferita ma fastidiosa  che non potrà certo eguagliare le ferite che mi porto dentro ma, sicuramente, mi allieterà perché avrà il sapore della vendetta!


domenica 4 ottobre 2015

*** RACCONTO N. 15: FRANCESCO, LODE AL SIGNORE ***


Racconto tratto dal "Cantico delle Creature" di San Francesco d'Assisi (1181-1226). Il dipinto è "Stimmate di san Francesco", di Gentile da Fabriano (1370-1427). L'immagine sottostante è di Giotto (1267-1337): l'affresco, realizzato nella Basilica superiore di Assisi, rappresenta la predica di san Francesco agli uccelli.


Un’altra giornata si è conclusa e, sebbene io stia in questo luogo da molti giorni, giurerei di non conoscerne ancora i particolari. Mi basta spostare lo sguardo di qua o di là per cogliere un dettaglio che mi è sfuggito: a seconda della provenienza della luce questi alberi e queste rocce appaiono diversi e sembrano comunicare qualcosa di diverso. E così mi fermo a contemplare lo spettacolo che mi circonda… per svariati minuti mi dimentico di fratello Leone e del dolore che affligge le mie mani… resto ipnotizzato da questo incanto e lascio che la natura mi parli…

E io sono tutto orecchi… le foglie vibrano, i rami ondeggiano, il fiume in lontananza rumoreggia, talvolta una volpe o una lepre esce di corsa da un cespuglio e mi concede l’onore di avvicinarmi, gli uccellini cinguettano festosi nell’aria, i fiori brillano con i loro colori, la terra emana i suoi odori piacevoli e profondi… allora lo capisco… capisco che tale bellezza è il preannuncio di qualcosa di più grande… capisco che, in questa vita, posso pregustare quello che sarà il Paradiso… allora cado sulle ginocchia commosso e ringrazio Dio per quello che ha fatto per noi… la mia preghiera, per quanto nasca da un cuore umile e sia pronunciata da una lingua che non troverà mai le parole giuste, ha l’impudenza di porsi a rappresentanza dell’umanità tutta.

Ringrazio Dio per tutto quello che ci ha dato: il sole, la luna, le stelle, il vento, l’acqua, il fuoco… sono nostri fratelli, non ci sono estranei perché noi viviamo con e grazie a loro… ci hanno accolti, ci accolgono ogni giorno: come potremmo non riconoscere tutto ciò che fanno per noi? Da loro traiamo il nostro sostentamento ma, soprattutto, essi partecipano alla bellezza della Creazione. Dio, cosa hai fatto? Dio, quanto ci ami? Dio, quanto non ti amiamo? Ci hai fatti liberi e ci hai donato questa meraviglia. Tensioni, gelosie, rancori e litigi spesso ci fanno dimenticare, ci fanno chiudere gli occhi… ma basta fermarsi un attimo e guardarsi attorno: il trionfo della bellezza! Io ne sono estasiato e, finché avrò respiro, canterò la mia lode a Te, Signore!

Ti ringrazio, dunque, anche per queste sofferenze che mi onorano e m’imbarazzano perché non sono degno di condividere il Tuo supplizio. Ma so che questo dolore eleva il mio spirito perché non c’è grandezza senza dolore, vittoria senza sacrificio. E so bene che quanti sopportano e patiscano con fede, da Te riceveranno una corona di luce lassù…


Ti ringrazio anche per la stessa morte che ho imparato a non temere grazie a Te. San Paolo ha detto che «L’ultimo nemico che sarà sconfitto sarà la morte» (1 Cor 15, 26): il Tuo sacrificio, infatti, ci ha tolto anche questa paura, la Tua Passione ci ha donato la speranza nella Resurrezione. Per questo non ho paura di morire e cercherò di affrontare il mio congedo da questo mondo con il sorriso di chi si appresta a incontrare il Padre che tanto ha dato ai suoi figli. Morirò felice perché Ti incontrerò, finalmente Ti vedrò. Morirò felice perché, colmo del Tuo amore, saprò amare ancora di più. Colmo del Tuo amore, gusterò una gioia eterna. Seguendo il Tuo esempio, ho avuto tanto da questa vita e altro non desidero che far fruttare questo piccolo tesoro nella Gerusalemme Celeste: infatti «per me il vivere è Cristo e il morire è un guadagno» (Fil. 1, 21).


sabato 19 settembre 2015

*** RACCONTO N. 14: IL SACRIFICIO DI LEONIDA ***


Racconto tratto dall'Elogio per i caduti delle Termopili scritto dal greco Simonide di Ceo (VI-V secolo a.C.). Nella foto il re Leonida del film "300" di Zack Snyder (2007), interpretato dall'attore Gerard Butler.


Una guerra si è da poco conclusa: Atene è salva! La Grecia è salva! Abbiamo vinto, è stato respinto il barbaro invasore persiano perché noi Greci non ci pieghiamo di fronte a nessuno. Cammino lungo il porto del Pireo: piacevole è la brezza della libertà. Davanti a me alcuni bambini rincorrono spensierati un cagnolino: ah, se sapessero! Ah, se sapessero quanti fratelli hanno versato il proprio sangue per loro! Se sapessero cosa hanno dovuto patire i simulacri dei nostri dei lassù sull’acropoli. Giocano spensierati ma un giorno sapranno… a me il compito di raccontare, alla mia poesia il compito di celebrare, ai miei versi il compito di perpetuare in eterno il ricordo. I miei versi sono anche per voi, bambini! Un giorno, spero, il vostro maestro li leggerà e saprete chi dover ringraziare per la vostra libertà.

Comune è stato l’impegno della Grecia contro il barbaro invasore: le poleis sono state un solo scudo su cui si è infranta la lancia del persiano, un solo grande pugno che ha rimandato indietro Serse e i suoi schiavi, una sola grande voce che fa ancora riecheggiare la parola “libertà” tra gli olii e i profumi di quel popolo molle e balbettante! Barbari! No, Atene non dimentica! Atene non dimentica lo sforzo di Sparta e del Peloponneso! Se questi bambini sono ancora qui a giocare, se queste navi sono ancora libere di salpare, se gli ateniesi sono liberi di poter costruire un’acropoli più bella e più maestosa di quella di prima, è grazie soprattutto a Sparta. E quando dico Sparta, dico Leonida, il re Leonida! Leonida, l’eroe delle Termopili!

Gli ateniesi saranno anche abili marinai, le loro triremi saranno anche agili e tremende, ma questa guerra si è decisa prima che sul mare, sulla terra: al passo delle Termopili. Qui appena trecento spartani si sono messi a capo della coalizione greca e il loro impareggiabile coraggio è da esempio per tutti noi. Il loro eroismo è stato quanto mai tempestivo. Senza il loro sacrificio, in questo momento, le tenebre dell’Ade mi avvolgerebbero e, se anche fossi ancora vivo, vedrei solo volti scuri e ascolterei una incomprensibile lingua. Sono sicuro che il Gran Re stia ancora tremando al pensiero di quella strenua resistenza: mai i suoi Immortali potranno emulare i valorosi trecento, figuriamoci la sua accozzaglia di schiavi!

Una bella morte hai conquistato Leonida, una bella fine hai garantito ai tuoi spartani. Per un guerriero non c’è aspirazione più grande: un grande insegnamento date a quanti gettano lo scudo e fuggono dal campo di battaglia come topi dal gatto. Per un guerriero non c’è aspirazione più grande che morire dimostrando il proprio coraggio e il proprio ardore fino alla fine di fronte al nemico ma, da poeta qual sono, credo che ancora più glorioso sia far riecheggiare le proprie gesta nei secoli a venire.

Poiché questa città e la Grecia intera sono ancora in piedi grazie al vostro sacrificio, poiché questi bambini ancora vivono grazie a voi, non posso fare altro che cantare la vostra impresa affinché un giorno tutti sappiano che trecento spartani, sotto la guida del valoroso Leonida, hanno dato la vita per la libertà della Grecia! 

sabato 12 settembre 2015

*** RACCONTO N. 13: IL PORTIERE ***



Racconto tratto da "Goal" di Umberto Saba (in foto: Gianluigi Buffon, portiere della Nazionale italiana)

Un tempo vi erano le arene in cui i gladiatori si fronteggiavano in duelli all’ultimo sangue: la folla sembrava essere assetata di sangue e poco le importava che lì sulla sabbia si venisse sventrati, mutilati, trucidati, uccisi… in fin dei conti erano i criminali a combattere. Poi sono giunte le giostre dei cavalieri: forse un po’ troppo rapide e monotone ma tali da poter fare di un cavaliere una leggenda. Quanto più sbalzava i suoi avversari da cavallo, tanto più il suo nome veniva cantato e celebrato al punto tale da vedersi dedicati dei poemi che esaltavano il suo coraggio e la sua abilità con la spada.

Oggi, fortunatamente, la maggior parte della gente si appaga di spettacoli più pacifici! E c’è un motivo se non ho richiamato alla memoria il grande passato dell’atletica e dei primi sport perché io, da calciatore, considero una partita di calcio una vera e propria battaglia! Il campionato o i tornei che disputiamo per vincere una coppa sono delle guerre: più vinci le singole battaglie, più hai possibilità di raggiungere il tuo obiettivo. A bordo campo c’è il nostro generale, in mezzo a noi il capitano contrassegnato con la fascia, sulle ali i nostri più bravi cavalieri, nelle retrovie degli alti e solidi fanti, al centro dei vigorosi arcieri, in avanguardia i nostri agili cavalieri leggeri.
Ebbene sì, la partita di calcio è una battaglia… e io, a volte, ho il privilegio di osservarla e godermela da un punto di vista molto particolare. Sono un portiere e, quando riusciamo a giocare una buona partita, non ho molto da lavorare: pertanto, mi capita spesso di osservare dalla mia porta ciò che accade. Per carità, non mi distraggo! Però osservo… vedo il mister sgolarsi, vedo l’attaccante che si lamenta del cross sbagliato, vedo l’altro attaccante che con umiltà ringrazia l’ala per la buona opportunità che ha avuto ma non ha saputo concretizzare.

Ormai le conosco tutte, le so a memoria, le varie emozioni… tensione, rabbia, gioia, godimento, nervosismo, adrenalina… un concentrato di sensazioni senza mettere a rischio la propria vita! Il tutto per il divertimento nostro, degli investitori e, soprattutto, del pubblico! Il pubblico! A lui va attribuita parte della responsabilità del risultato… con i suoi boati, i suoi cori, i suoi fischi, i suoi applausi… e quando fa silenzio, quanto è eloquente! In quel momento c’è la consapevolezza che quanto sta per accadere di lì a qualche secondo ha il potere di cambiare l’esistenza stessa: di lì a poco tutti piangeranno, chi per la gioia, chi per l’amarezza!

È il momento dei calci di rigore, così cari a noi portieri… non ne ho parati molti nella mia carriera ma quel minuto che racchiude la decisione dell’arbitro, le proteste, il fischio, la rincorsa, il tiro, la meditazione, il tuffo… è indescrivibile! Da latitante in una partita, ti trasformi nel possibile salvatore! La sorte del match è tutta nei tuoi guanti! Dove mi butto? Tirerà a destra o a sinistra? Rimango al centro? Quegli undici metri cambiano il modo di giocare e combattere di undici uomini!


Se pari il rigore, sei un eroe… se non lo pari, nessuno ti rimprovererà ma dovrai sostenere il peso di una possibile sconfitta o della mancata opportunità di far punti e avanzare in classifica. Chi segna (su rigore o meno), è poco meno di un dio! I compagni lo abbracciano, lo baciano, lo strattonano… in quel momento non c’è gelosia nei suoi confronti ma solo gratitudine perché la squadra va avanti grazie all’impresa compiuta da quell’elemento. La squadra è come una macchina: le varie componenti devono cooperare quanto più in armonia per ottenere il risultato migliore. Non esiste il singolo, esiste solo il gruppo! E, lo stesso portiere, per quanto può restare fermo per minuti a guardare la sua squadra creare occasioni, anche se restasse fermo per una partita intera, è parte integrante della squadra perché ogni giocatore sa che, nel momento del bisogno, il portiere potrà rivelarsi come l’uomo che fa la differenza in quella che è una “pacifica battaglia”.

giovedì 6 agosto 2015

*** RACCONTO N. 12: LA PROMESSA SPOSA E SUA SORELLA ***

Racconto tratta dall'Epodo di Colonia del poeta greco Archiloco (nella foto una seconda versione del gruppo scultoreo "Amore e Psiche" di Antonio Canova e conservata al Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo)




Il matrimonio è un patto e i futuri coniugi devono attenersi alla volontà dei contraenti. Invano ho tentato di oppormi al patto che mio padre ha deciso di stringere in mia vece e il Fato ha voluto che io prenda in moglie Neobule, la figlia di Licambe e Amfimedò. Ah, Licambe! Vecchia volpe! Chi più di te trarrà vantaggio da questa unione? Sei sempre stato un viscido opportunista e, per  sistemare Neobule, non hai avuto vergogna a cercare il miglior partito. Ma come potrà cambiare in meglio la mia vita? Ho cercato di far valere le mie ragioni ma non sono riuscito a convincere mio padre: imperioso, come Zeus in persona, ha ribadito la sua volontà e io non ho potuto far altro che abbassare la testa e tacere.

Ci ritroviamo, oggi, nella casa di Licambe. Al tavolo è seduto alla destra di mio padre e gli parla come se lo conoscesse da sempre, come se fossero nati dalla stessa donna. Lurida serpe! Lo sciagurato sono io, vittima delle tue macchinazioni. E hai anche il coraggio di parlarmi?! Mi parli come se fossi tuo figlio?! Nei miei confronti hai un crimine che non ti perdonerò mai. E, al tuo fianco, c’è Neobule, accompagnata dalla sorella. Oh, Neobule… anche tu hai da guadagnare molto dal nostro matrimonio. Tra tutte le donne di questa città, il mio sguardo non sarebbe certo caduto su di te! La tua bellezza, ormai, è in declino… la tua verginità probabilmente è un lontano ricordo. Continui a parlarmi e a ridacchiare come una stupida papera ma, al pensiero di condividere il resto della mia vita con te, mi vien quasi voglia di alzarmi e ribaltare il tavolo. Se mi sposassi con te, diverrei lo zimbello di tutti. Sarei motivo di riso per i vicini. Ogni volta bisbiglieranno e rideranno alle mie spalle. No, non posso sposare una donna del genere. Come potrei mai? Come potrei sposare una donna che conosce più uomini di me?

La sorella di Neobule, invece, pare non aver niente a che fare con lei. È più giovane ma, soprattutto, molto più graziosa ed elegante. Se ne sta lì seduta in silenzio, parla poco e niente. Ogni tanto vedo che mi rivolge uno sguardo ma, quando i nostri occhi si incrociano, lei li abbassa e giurerei davanti agli dei che un minimo di rossore si possa cogliere sulle sue guance. Ha dei lunghi capelli neri mossi e delle lentiggini sul volto che le conferiscono un’aria di pericolosa innocenza. Sì, la sorella minore di Neobule è di gran lunga preferibile. Mi avessero destinato a lei gli dei! A quest’ora farei un’ecatombe in loro onore!
Sebbene le mie orecchie siano letteralmente massacrate dai discorsi senza senso di Licambe e dai futili commenti di Neobule, cerco di poggiare i miei occhi sulla giovane ragazza immaginando cosa ci sia sotto il suo bianco vestito. All’improvviso, però, lei si allontana e fa cenno all’ancella di non seguirla. Spero solo che torni presto e non mi lasci da solo… ma, senza troppo pensarci, mi alzo anch’io e chiedo gentilmente di potermi assentare per qualche minuto. Non mi è difficile trovarla. Si trova in un giardino e, dandomi le spalle, sembra intenta ad accarezzare le foglie di una pianta. Mi avvicino, preso da eccitazione alla vista del suo corpo snello. La chiamo per nome e lei si volta di scatto impaurita.

«Che ci fai qua?» mi chiede agitata.
«Ti cercavo…» rispondo spavaldo.
«Non dovresti essere qui…» dice lei cercando di evitare il mio sguardo.
«Io dico di sì» affermo preso da un coraggio che solo la rabbia può generare.
Le afferro i gomiti con forza costringendola a rivolgere i suoi scuri occhi verso di me.
«Non puoi farlo…» dice lei sempre più agitata.
«Io dico di sì…» ribadisco io.
«Sei promesso a mia sorella».
«Neobule, che l’abbia un altro uomo!»
È presa dalla paura di poter essere scoperta ma il suo sguardo dice che desidera tutt’altro…


E allora, decidendo di fare mia ognuna di quelle lentiggini, la giro e incomincio ad affondare il capo nei suoi capelli scuri come la notte e profumati come la primavera. L’eccitazione prende anche lei al punto da non scongiurarmi più di fermarmi. In poco tempo, si ritrova senza vesti lasciando che io tocchi ogni sua singola curva. Ho tra le mani un giovane corpo, di gran lunga migliore di quello di Neobule. Non so come ne uscirò fuori ma, se vogliono, gli dei mi possono prendere anche adesso! Sono felice, infatti, perché Licambe dovrà ricredersi sul suo desiderato genero, nonché sulla sua ardita figlia minore. A me, Archiloco, il merito di aver gettato discredito sulla casa di Licambe, ancor più di quanto ce ne fosse già! Sono stato più furbo di lui che, ora, dovrà affrontare il problema di non una ma ben due figlie! Se vorrà, potrò sposare la minore: solo questo è il patto che posso accettare!

mercoledì 5 agosto 2015

Anticipazioni racconto n. 12

Il prossimo racconto è tratto dal cosiddetto Epodo di Colonia del poeta greca Archiloco (VII a.C.). Si tratta probabilmente di un componimento molto conosciuto agli "addetti ai lavori" visto il contenuto particolarmente... spinto... Il racconto s'intitolerà "La promessa sposa e sua sorella". A domani!



Prostituta e cliente, vaso a figure rosse

giovedì 30 luglio 2015

*** RACCONTO N. 11: NON CANTO L'AMORE ***




Il racconto è tratto dalla poesia "La mia malinconia è tanta e tale" di Cecco Angiolieri: si tratta di un componimento di critica ai poeti contemporanei del Dolce Stil Novo (il dipinto è "Dante e Beatrice" di Henry Holiday)

Viviamo ai tempi dell’amore, è il trionfo dell’amore! Non si sente parlar d’altro… amore, amore, soltanto amore! Qua e là dei nuovi Catullo sono spuntati… la Francia sembra non conoscer niente di diverso dalle imprese dei cavalieri o dalle leggendarie vittorie alla giostra: il tutto per impressionare il cuore di qualche nobile e graziosa dama. Sembra quasi che prima di questo secolo il mondo non conoscesse né la donna né l’amore, dovevamo attendere questa epoca per cantare l’amore. Se penso all’Italia, non posso non ricordare i due Guido e c’è quel fiorentino, l’Alighieri, che non è da meno rispetto ai suoi predecessori e sembra prometter bene.

Lo confesserò, non so dove voglia arrivare: faccio fatica a comprenderlo e mi spavento al solo immaginare cosa possa partorire la mente di quel guelfo. È abile, questo devo riconoscerlo, ma l’amore che va cantando mi pare così lontano dalla realtà! Eppure i suoi versi vedono, giorno dopo giorno, allargarsi il proprio pubblico! Cosa dovrebbe fare un senese come me di fronte al successo della poesia di questo ardito fiorentino? Dovrei, forse, anch’io mettermi a piangere, strapparmi i capelli, gridare il mio dolore a tutto il mondo? Dovrei, forse, render pubblica la mia sofferenza? Dovrei, forse, dannarmi su questa terra, prima ancora di raggiungere l’Oltretomba, solo e soltanto in nome della cortese poetica dell’Amore?

No, di lamentosi e visionari ce ne sono fin troppi in giro: se li tengano pure Firenze, Bologna e la Sicilia tutta! Siena risponderà con un’altra poesia, una poesia che faccia sorridere chi la ascolta o la legge e non cada in toni visionari e insensati. Poi, quale sofferenza dovrei cantare? La tua amata non ricambia il tuo sentimento? Dimenticala! Ne troverai un’altra, anche più bella! Neanche questa sarà degna di te? Non crogiolarti! Ce ne sono altre dieci che aspettano soltanto di conoscerti! Il verso sia motivo di gioia e non di tristezza, la poesia sia un palliativo e non motivo di maggior dolore. E, soprattutto, la poesia non sia espressione di ipocrisia e vaneggiamenti: oggi la donna celebrata è una figura angelica, domani, una volta conquistata, sarà una vecchia decrepita e sempre più difficile sarà conviverci!

Cecco Angiolieri non canterà saluti negati e sogni fugaci, né angeli e madonne! La sua poesia dovrà stimolare il riso, non si perderà nel vortice della malinconia, non sarà vinta dagli strazi del mal d’amore, né fantasticherà su melliflue donne angeliche. Mi vergognerei nel rappresentarmi come un amante non corrisposto di cui avrebbero pietà anche i nemici. Arrossirei nel figurarmi come un mendicante che va elemosinando il saluto di una donna o una semplice parola, anche solo di odio e scherno. Non mi riconoscerei se piangessi per la totale indifferenza della mia amata che fa fatica ad accorgersi della mia stessa esistenza. Non sia mai che la mia poesia tratti tali cose! Lascerò ad altri tali temi, io canterò qualcosa di più basso ma avrò la soddisfazione di aver cantato il vero. Mi distinguerò dagli altri come un giullare che intrattiene il pubblico tra un duello e un altro in un torneo cavalleresco. Sì, sarà così ma la cosa non potrà che recarmi fama e prestigio e, un giorno, si ricorderanno del senese Cecco Angiolieri come di colui che si distinse per aver allietato il suo pubblico come pochi sapevano fare al suo tempo. E allora che Siena sia felice grazie alla poesia del suo Cecco Angiolieri!



mercoledì 29 luglio 2015

Anticipazioni racconto n. 11

Il racconto di questa settimana è tratto da "La mia malinconia è tanta e tale" di Cecco Angiolieri. Si tratta di una poesia satirica che rinnega tutta la produzione impegnata dei suoi contemporanei (Cavalcanti, Guinizzelli, Alighieri, Petrarca, ecc.). Il titolo del racconto sarà "Non canto l'amore". A domani!


La mia malinconia è tanta e tale

La mia malinconia è tanta e tale,
ch’i’ non discredo che, s’egli ’l sapesse
un che mi fosse nemico mortale,
che di me di pietade non piangesse.

Quella, per cu’ m’avven, poco ne cale;
che mi potrebbe, sed ella volesse,
guarir ’n un punto di tutto ’l mie male,
sed ella pur: – I’ t’odio – mi dicesse.

Ma quest’è la risposta c’ho da lei:
ched ella non mi vol né mal né bene,
e ched i’ vad’a far li fatti mei;

ch’ella non cura s’i’ ho gioi’ o pene,
men ch’una paglia che le va tra’ piei:
mal grado n’abbi Amor, ch’a le’ mi diène.

giovedì 23 luglio 2015

*** Racconto n. 10: IO E DIO ***


Tratto da "Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono"  di Francesco Petrarca (Dipinto: "Donna al tramonto del sole" di Caspar David Friedrich)


Credo di non essere l’unico in questo mondo ad esser caduto nella trappola d’amore. Giorni e notti trascorsi a inseguire una figura che continuava a fuggire come nella realtà. È stato un continuo fantasticare, un continuo tendere a qualcosa di irraggiungibile e, quanto più cercavo di avvicinarmi, tanto più perdevo me stesso, sia come persona sia come poeta. Laura continua a correre libera e leggera come una Ninfa, ma io non intendo continuare a soffrire per lei.

Le molteplici speranze che quotidianamente mi allietavano si sono rivelate completamente inutili, pura illusione. Le molteplici sofferenze che credevo sarebbero cessate prima o poi e che speravo fossero preparazione a una gioia inimmaginabile, anch’esse non hanno portato a nulla. È stato un sogno, solo un sogno ingannevole, un sogno distruttivo. Ora mi ritrovo, così, a guardare indietro, a quegli errori giovanili, di cui provo una grande vergogna. Probabilmente sono stato oggetto di scherno e di riso di molti, ma come biasimarli? Mi sembra, al momento, di aver quasi perso tempo, di aver gettato all’aria anni che avrebbero potuto avere gioie ben diverse.

So che qualcuno riesce a comprendere il mio stato, so di non essere l’unico ad aver avuto questa triste esperienza. Non c’è cosa peggiore che darsi un obiettivo, perseguirlo costantemente e non riuscire a raggiungerlo. Sapete bene come ci si sente quando si prende consapevolezza di aver inseguito non tanto un ideale, quanto un vero e proprio fantasma. Illusioni quotidiane, immagini fantasiose, scene partorite dalla mente mi hanno accompagnato per molto, troppo tempo. Tutto questo mi ha fatto perdere me stesso…
Non ho potuto, infatti, evitare di dare voce alla mia penna per sfogare tutto ciò che aveva invaso il mio cuore. Ora mi ritrovo davanti a delle carte che sembrano essere state scritte da un pazzo. Un uomo che aveva perso la sua bussola e camminava come un vagabondo. Che vergogna! Chiedo scusa in anticipo a quanti  leggeranno quelle rime e rideranno di me. Ho recato oltraggio alle parole sottomettendole ai miei desideri e alla mia perdizione.

Ma, soprattutto, ho offeso Dio… inseguendo quell’immagine terrena, ho fatto di lei il mio bene più grande e ho teso tutti i miei sforzi al fine di raggiungerla. Non c’era nient’altro, non c’era niente di più importante. Mi sono dimenticato di te, Dio. Invano ho pensato di porti sullo stesso piano di Laura e solo ora capisco che, tra i due, solo Tu mi sei rimasto. Me ne fossi accorto prima! Invece ho continuato a perseguire un piacere tutto terreno, tutto materiale, che era solo sorrisi, abbracci, baci, parole suadenti, corpi… il piacere voluttuoso è stato il mio unico interesse che mi ha persuaso e ammaliato portandomi ben lontano dal Vero Bene… sono stato legato e trattenuto dalle catene dell’amore umano e, solo dopo tanto tempo, quando non ho riconosciuto più me stesso, quando ho capito di esser diventato niente di tanto diverso da una serpe strisciante, ho compreso l’entità dell’errore giovanile.


Continuerò a pentirmi, a vergognarmi e a tormentarmi per tutto ciò ma saprò di poter tendere a qualcosa di più grande, di sublime…

mercoledì 22 luglio 2015

Anticipazioni racconto n. 10

Siamo al terzo e ultimo capitolo della trilogia dedicata a Francesco Petrarca. Dopo "Solo et pensoso" e "Pace non trovo e non ho da far guerra", è la volta di "Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono" e il racconto si intitolerà "Io e Dio". A domani!

Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,

del vario stile in ch’io piango e ragiono
fra le vane speranze e ‘l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.

Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;

e del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto,
e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

giovedì 16 luglio 2015

*** RACCONTO N. 9: IO ED EROS ***

Tratto da "Pace non trovo e non ho da far guerra" di Francesco Petrarca (la scultura nell'immagine sottostante è "Eros che incorda l'arco", copia romana conservata nei Musei Capitolini di un originale greco di Lisippo)

Quando gli antichi parlavano del dio Eros che svolazzava di qua e di là alla ricerca di bersagli per il suo arco non erano tanto lontani dalla realtà. In maniera del tutto imprevista, a seconda di quale sia la volontà del dio (ammesso che si possa parlare di un dio), ti ritrovi con una freccia nel cuore… qualora questa freccia fosse vera, potremmo solo immaginare il dolore che causerebbe. Eppure, nonostante io non possa toccarla e afferrarla, sento comunque la sua punta aguzza che fa male, molto male…

Ma perché, se mi trovo a soffrire così, non riesco a prendermela con chi rappresenta la causa del mio dolore? Semplicemente perché sono innamorato di quella persona. Sento di essere in guerra ma non so contro chi o cosa sto combattendo. Sento di essere in guerra ma non ho le armi o i mezzi per affrontarla. Questo è l’amore… soffrire e sorridere, sperare e sprofondare… ora questo pensiero mi dà sollievo, ora quest’altro mi rattrista… ora la delusione mi trascina verso il baratro, ora l’immaginazione mi eleva fino alle stelle…

È il controsenso dell’amore: la gioia e il dolore hanno pari peso sui piatti della bilancia. In certi momenti vorrei annullarmi, addormentarmi e dimenticare tutta questa mole di sentimenti contrastanti. Poi mi faccio forza, quasi sicuro di poter riuscire nel mio intento. A volte voglio liberarmi da questi vincoli e riprendere la vita di sempre ma, se mi fermo a pensare, mi rendo conto che senza quei vincoli starei peggio di ora. Aborrisco la vita ma non riesco a inseguire la morte.



Pare che lo stesso Eros si diverta a torturarmi: è una continua tortura che non conosce fine. Un po’ come Prometeo incatenato alla rupe e costretto al quotidiano attacco dell’aquila che non cessa mai di cibarsi del suo fegato che ricresce di notte. La mia condizione non è tanto dissimile. Di giorno soffro e sono lacerato dal desiderio, di notte i sogni mi allietano e mi danno piacere. Capisco, quindi, cosa intendesse veramente il veronese Catullo quando diceva «Odi et amo»! Neanche lui sapeva come questo potesse accadere ma, continuando ad amare la sua Lesbia, se ne struggeva arrivando fin quasi ad odiarla.


Parlare di odio sarebbe troppo, mia Laura. Eppure, se proprio il mio desiderio non è destinato ad esser soddisfatto, preferirei esser dimenticato da Eros, dimenticare te e riappropriarmi della mia vita. Uscirei, così, da questa ambiguità, da questa doppia esistenza che mi eleva e mi abbassa al tempo stesso ai sentimenti più puri e alle sofferenze più grandi. Ma Eros è un dio testardo e ancora non vuole saperne di lasciarmi andare. Continuerò, dunque, a dannarmi per te con la speranza che il dio voglia (al più presto) porre fine a questa cosa legandoci l’uno all’altra.

mercoledì 15 luglio 2015

Anticipazioni racconto n. 9

Il prossimo racconto, nonché secondo della trilogia dedicata a Francesco Petrarca, è tratto dalla poesia "Pace non trovo e non ho da far guerra" e sarà intitolato "Io ed Eros". A domani!



Eros, particolare de "La primavera" di Botticelli



Pace non trovo e non ho da far guerra

Pace non trovo e non ho da far guerra
e temo, e spero; e ardo e sono un ghiaccio;
e volo sopra 'l cielo, e giaccio in terra;
e nulla stringo, e tutto il mondo abbraccio.

Tal m'ha in pregion, che non m'apre nè sera,
nè per suo mi riten nè scioglie il laccio;
e non m'ancide Amore, e non mi sferra,
nè mi vuol vivo, nè mi trae d'impaccio.

Veggio senz'occhi, e non ho lingua, e grido;
e bramo di perire, e chieggio aita;
e ho in odio me stesso, e amo altrui.

Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte e vita:
in questo stato son, donna, per voi.

giovedì 9 luglio 2015

*** RACCONTO N. 8: SOLITUDINE ***


Il primo racconto della trilogia dedicata a Francesco Petrarca è tratto da "Solo et pensoso" (dipinto "Ragazza in un bosco" di Vincent Van Gogh)

Non è la prima volta che mi ritrovo a passeggiare, o meglio vagare, per questi campi. A volte la solitudine si rivela necessaria: troppa stanchezza, troppa sofferenza mi causano gli altri. Si è sempre costretti a sorridere, a dire questa o quella parola di gentilezza, ad osservare regole e rituali e a dar conto a chi non si vorrebbe nemmeno aver incontrato sulla propria strada. La finzione regola la nostra vita: non so quante volte in questa giornata ho affermato di stare bene mentendo spudoratamente. Non vogliatemene, ma cosa mai potrei condividere con tutti voi? Io ritengo che nessuno di voi mi possa esser d’aiuto. Nessuno di voi sa ascoltarmi come questi alberi, queste spighe, queste tranquille acque.

In mezzo a questo paesaggio io ritrovo me stesso: ho modo di parlarmi, di ascoltarmi, a volte anche di consigliarmi. Qui non c’è nessuno al di fuori di me e la mia anima. Qui il tempo è pesante ma passa veloce: ogni attimo rimanda a ricordi lunghi quanto giorni ma non faccio in tempo a riprenderli e dominarli tutti che già scorgo il sole calare al di là dei monti e sono costretto a tornare indietro alla vita e al mondo di sempre.

Così sono costretto a ricorrere spesso a questa medicina: ormai ne sono dipendente. Mi convinco giorno dopo giorno che il mio male sia incurabile e posso solo allievare il dolore venendo qui e perdendomi tra i meandri della mia anima. Curiosa la vita! Questa quercia che si erge imponente alla mia destra mi conosce meglio di chi quotidianamente mi parla e finge di preoccuparsi per me. Questa quercia ha saggiato il sale delle mie lacrime e non ho potuto che elevarla al grado di mia migliore confidente!

Potessi portarti qui, Laura! Potessimo insieme condividere e godere di questo silenzio! Allora l’aria sarebbe riempita soltanto dalle nostre parole amorose, dalle mie rime e dalle tue dolci risate. Ogni tanto ci farebbe visita il vento che con la sua voce loderà le tue chiome ed io non perderei occasione per vantarmi di te di fronte a lui. Poi ci stenderemmo alla fresca ombra della mia amica quercia e anche tu imparerai a conoscerla come me e più conoscerai lei, più conoscerai me. Ma, soprattutto, io avrei modo di vivere te e di morire nel rosso vivo delle tue gote. Questa sarebbe la sola morte che desidero!


Qui solo riesco a chiudermi nel mio dolore, qui solo riesco a desiderarti veramente, Laura. Qui ti rivedo nei nostri fugaci incontri, qui rivivo il passato, qui invento il futuro. E allora mi accorgo che in fin dei conti non sono così solo… non sono solo io a camminare lungo questi campi, non sono solo quando mi appoggio a questo tronco… c’è Lui, Amore, a seguirmi e ad attaccar discorso. Lui è al mio fianco persino prima di giungere qui, mi segue già da quando affiora in me il desiderio di evadere e raggiungere questa immensità. Anzi, a dirla tutta, è Lui che mi invita a fuggire. È Lui che quotidianamente mi ordina di perdermi per cercare di ritrovare me stesso. Amore, ormai, condiziona tutta la mia esistenza. Ormai è l’incarnazione del Tempo stesso. Scandisce ogni singolo attimo della mia vita ed è mio alimento e mia maledizione: senza di Lui sicuramente morirei perché è il mio unico amico ma, continuando ad accompagnami, continua il mio travaglio. A questo solo tu potresti porre rimedio, o Laura!

mercoledì 8 luglio 2015

Anticipazioni racconto n. 8

I prossimi tre racconti saranno una vera e propria trilogia che avrà per protagonista Francesco Petrarca. Il racconto di domani sarà tratto da Solo et pensoso.



Il testo della poesia:

Solo et pensoso i piú deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.

5Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
10et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.

Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co’llui.