giovedì 11 aprile 2019

*** RACCONTO N. 28: UN LUNGO CAMMINO ***


Tratto da "Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale"
di Eugenio Montale
Il dipinto è "Spirits by the lake" di Leonid Afremov

Ed eccomi qui, ora sono rimasto da solo e nient’altro mi è rimasto che il ricordo di te. La mia dolce Mosca … ricordi di quando eri solita ronzarmi intorno? Questo lungo percorso che insieme abbiamo vissuto, le emozioni, le gioie, i dolori e tutte le sorprese che la vita ci riservava: ne abbiamo fatta di strada!

Contro tutte le avversità che il destino ci lanciava contro, eravamo uniti, pronti a tutto lungo questo susseguirsi di gradini costellato di deformazioni e ostacoli, giuro che sarei inciampato e caduto parecchie volte, mai mi sarei rialzato se tu non ci fossi stata, perché eri tu colei che guidava i miei passi, la mia luce su questa via che ora sembra così oscura, tale da sembrare una selva infernale.

Con te ogni cosa sembrava più semplice, mi davi forza grazie alla tua saggezza che tanta fiducia ispirava dentro me, tutto aveva senso e ogni cosa aveva il suo posto, ma ora…

Ora niente ha più senso: ho dentro un vuoto incolmabile che mi trascina sempre più in basso. Non sono ancora arrivato alla fine del cammino, eppure sono costretto a procedere da solo e questa scalinata non fa altro che diventare più ripida. Se mi guardo indietro posso notare che il cammino si perde in lontananza a vista d’occhio, tuttavia estremamente breve è stata la durata, ogni giorno della mia vita fino a questo momento trascorreva nella dolcezza, così velocemente, così fuggevole ma così dolce ed io ero così felice in quella quotidianità fatta di piccole cose, godendo della tua compagnia…

E perché mai dovrei continuare se ogni cosa ha perso il suo senso? Guardandomi attorno posso vedere questa marea caotica di persone con lo sguardo fisso verso il basso, contenitori inanimati le cui menti sono occupate dalle preoccupazioni più futili di questa vita, le cose terrene che per me non hanno più alcun senso. Già, guardali, corrono come formiche dentro un formicaio, preda delle cose sensibili che la superficie lascia vedere, senza alcun interesse in quello che la realtà davvero è, poiché solamente ciò che i sensi mostrano essi riescono a credere sia vero.

Ma tu, mia cara Mosca, tu invece vedevi bene: non con gli occhi, certo, ma riuscivi a penetrare nel cuore stesso delle cose; laddove gli altri si fermavano con atteggiamento superficiale a ciò che appariva, tu eri capace di osservare oltre il velo andando in profondità nel guardare le cose. Era questo che ti rendeva saggia e perciò eri tu colei che doveva essere al mio fianco.

Ci siamo sorretti a vicenda in questo percorso, ma tu eri il sostegno di tutto. Il tuo acume così vivace era ciò che ti dava così tanto valore e per questo tu eri la mia guida.

Non so cosa mi aspetta adesso: anche se tutto il percorso fatto è stato lungo e pieno di avventure, ora la sua durata sarà estremamente lunga, ogni istante si dilaterà e il vuoto che si è creato dentro darà luogo ad un’infelice agonia. È stato un lungo cammino, ma è sembrato un arco di tempo così breve, troppo velocemente te ne sei andata! Questa scalinata diventerà sempre più lunga, troppo sarà il tempo necessario per percorrerla.

Non so se sarò in grado di arrivare alla conclusione di questo viaggio senza di te, ma una cosa la so: solo il ricordo di te, dei momenti passati insieme e l’amore che abbiamo condiviso costituirà in questo lungo cammino il rimedio contro questo vuoto, così opprimente e così oscuro, che minaccia di afferrare in una morsa il mio animo.

Il ricordo dei tuoi occhi che così dolcemente hanno penetrato nel mio cuore illuminerà i gradini squarciando l’oscurità.

sabato 16 marzo 2019

*** RACCONTO N. 27: IL BEL SALUTO ***


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Racconto tratto da "Lo vostro bel sauto e 'l gentil sguardo" di Guido Guinizzelli
Il dipinto dal titolo "Dante e Beatrice" è di Henry Holiday

Stavo passeggiando per le stradine della mia Bologna diretto alla mia dimora. Avevo da poco incontrato frate Adelmo che mi ha promesso al più presto della nuova pergamena. Ero, dunque, diretto alla mia casa, immerso tra mille pensieri, quando l’ho vista… indossava un lungo vestito verdone che, facendo intravedere soltanto il collo, lasciava immaginare le sue forme... I suoi capelli color castano chiaro che si adagiavano sulle sue spalle… gli occhi in cui si rifletteva la luce del sole alto a mezzogiorno…

Non era la prima volta che la incontravo poiché la conosco bene. È la figlia di un ricco mercante di stoffe, amico di mio padre. Non mi è mancata occasione di vederla in passato, specialmente quando accompagnavo mio padre a far visita al suo. Devo, però, ammettere che, soltanto da qualche mese, quando l’ho rincontrata a distanza di anni, difficilmente il suo volto riesce ad abbandonare la mia mente. Pensarla mi è divenuto ormai vitale, ella ispira le mie rime. Ed ora, seduto al mio tavolino, sono preso dal folle bisogno di affidare al calamo l’episodio di questa mattina: ancora una volta parlerò di lei, ancora una volta dovrò fare in modo che sia il mio cuore a esprimersi e a svuotare tutto.

Personalmente non mi è mai capitato di ritrovarmi una lama puntata contro ma, dalle storie che si raccontano nelle taverne e, talvolta, nei palazzi dei nobili, pare che il malcapitato, di fronte alla punta aguzza di una spada o di un pugnale, difficilmente riesca a mantenere il controllo di sé e non è raro che sia incapace di proferir parola se non preghiere poco virili che invocano la pietà e la clemenza di chi sta per affondare la lama nelle sue carni. Fortunatamente mai, dicevo, mi è capitato un episodio simile ma ciò che è accaduto questa mattina ritengo sia di gran lunga peggiore.

Passeggiava tranquillamente dialogando e ridacchiando con due sue amiche e, alla mia vista, non ha fatto altro che sorridermi e salutarmi. «Buongiorno, Messer Guido». Tre parole e un sorriso, nulla di più. Cosa sono in confronto al duro acciaio? Niente, mi direste voi… eppure, ho sentito qualcosa più forte di una lama penetrarmi le viscere e giungere fino al cuore, come un dardo scoccato da uno di quegli imponenti archi inglesi… Ma chiunque venga colpito al cuore da una freccia, cade immediatamente a terra senza vita. Io, invece, continuo a vivere e a sentir dolore!

È durato un attimo. Mi è passata davanti e mi ha salutato. Credo di non aver avuto la gentile cortesia di rispondere al suo saluto: sono rimasto lì fermo a vederla passare davanti a me, fermo come una statua d’ottone, incapace di manifestare alcun segno di vita. Di duro ottone si è fatto il mio corpo quanto duro era il colpo che il mio cuore ha subito, i cui effetti ancora si fanno sentire. Non so come andrà a finire questa storia, non so se reagirò mai a simili incontri, se avrò la forza e il coraggio anche solo di rispondere al suo saluto. So soltanto che, ancora una volta, dovrò rifugiarmi nella dolcezza delle rime per poter trovare un minimo di sollievo. Ma possono i versi sciogliere l’ottone?

giovedì 28 febbraio 2019

*** RACCONTO N. 26: GUERRA ***

Spesso la vediamo in tv o al cinema, qualcuno ci gioca ai videogiochi, ne parliamo come se fosse un fenomeno lontano da noi e impossibile a vedersi nelle nostre terre. Pensiamo di conoscerla, ma non possiamo neanche immaginarla, la guerra... un racconto tratto da "Veglia " di Giuseppe Ungaretti





Fa freddo, stiamo gelando… eppure non ne soffriamo più. La schiena a pezzi, per ore e ore distesi in questa fossa… ma ormai i nostri corpi non sono altro che un prolungamento del ventre della terra. Abbiamo fame, abbiamo sete… ma ci siamo abituati. Ma non ci abitueremo mai a quest’odore. Non quello della terra e dell’erba bagnate dal gelo notturno. No, ci risulterebbe addirittura piacevole, in un’altra situazione almeno. Non quello delle polveri e degli esplosivi che, per quanto possano esserci tossici, ci ricordano che siamo ancora vivi. Non quello dei nostri corpi e dei nostri escrementi… il nostro naso e il nostro stomaco si sono abituati anche a quello! Non siamo tanto diversi dalle bestie, insomma, ma continuiamo a pensare, a ragionare, a lottare, a soffrire… non ci abitueremo mai a questo odore ferroso. E non è quello delle armi. No, è qualcosa di molto più umano, più intimo, qualcosa che ci appartiene da sempre, da quando siamo stati concepiti, che ci portiamo in ogni momento pur senza ricordarlo. È l’odore del sangue.

C’è sangue ovunque. Le pozzanghere sono ormai un misto di fango, sangue ed escrementi. La vita è buttata là in mezzo ai rifiuti… rimasta a urlare nei nostri cuori ogni volta che i nostri logori stivali affondano in quelle pozzanghere. E schizza schiacciata dal peso dei nostri corpi, come se fosse pioggia, come se si fosse raccolta della semplice acqua piovana. Lì per lì, impegnati a sopravvivere nel corso della battaglia, non ce ne accorgiamo. Ma basta fermarsi un attimo, un momento, l’odore del sangue torna a tormentare le nostre narici, provoca le nostre lacrime.

E non potrebbe essere altrimenti… perché appena sopra quella pozzanghera c’è un corpo inerte… pallido, rigido, più freddo dell’aria, gli occhi sbarrati, la bocca aperta… un altro compagno andato via, un’altra vita abbattuta. La luce della luna (bella lei, se ne sta tranquilla là sopra e si prende gioco di tutti noi!) accarezza quel corpo. E riesce a renderlo ancora più terribile… la luna me la immagino illuminare il corpo di una donna che vuole essere amata da me. Quanto è distante la mia mente dalla realtà. Quanto distante sono io dalla mia casa, dalla vita di prima, dagli affetti… da una distesa verde illuminata dalla luna e una donna che vuole stringermi a sé. 


E tu sei qua, fratello mio… sei uguale a me. Sei stato solo più sfortunato di me. Tu sei morto e io continuo a morire vivendo. Sono tutti uguali a me. Anche quelli che stanno dall’altra parte, anche quelli che queste mani hanno ucciso. Siamo maledetti, condannati a svuotare questi caricatori nella speranza che il fronte avversario possa cadere prima del proprio e si possano conquistare metri preziosi. Ma sono giorni che non avanziamo né arretriamo di un millimetro.



Per quanto ancora, fratello mio, continuerai a fissarmi?
Per quanto ancora il tuo sangue mi tormenterà?
Per quanto ancora durerà questa guerra?
Non voglio morire…
 

mercoledì 20 febbraio 2019

*** RACCONTO N. 25: EROS DOLCEAMARO ***



Tratto da un componimento della poetessa Saffo (frr. 31-130 Voigt)
Il dipinto è "Saffo e Alceo a Mitilene" (Lawrence Alma-Tadema)

Questa notte il mio giaciglio mi è estremamente fastidioso, un pensiero fisso tormenta la mia mente, ho la guerra nel cuore e alterno sentimenti di amore e di odio. Sento, dentro di me, che potrei amare al pari di Afrodite e, allo stesso tempo, fare la guerra come se fossi Ares in persona… non a caso i due sono stati amanti. Resto esterrefatta di fronte all’ambivalenza della mia anima… un sentimento così positivo come l’amore si mescola con l’odio più profondo, la volontà di torturare come io stessa lo sono da te, ignobile essere, ladro, tu che mi hai spodestato, tu che mi hai negato il posto che gli dei mi avevano riservato!

Ho creduto di poter avere al mio fianco la bella Ariadne ma è stata un’illusione… invano l’ho desiderata, invano ho sperato! E mi sono soltanto illusa quando mi sorrideva, quando mi parlava cordialmente, quando mi chiedeva consiglio su abiti e balli, quando mi raggiungeva da sola nella mia camera per apprendere l’arte della poesia. Credevo di poter essere più che un mentore o una madre o una sorella maggiore, credevo di poter essere un’amante… ma, se il tempo ha fatto sì che i semi dell’amore pian piano venissero assorbiti e germogliassero dentro di me, tale processo non è avvenuto in te, mia Ariadne.

Mi sono illusa di poter rivendicare su di te un vero e proprio diritto di proprietà e, se anche tu non fossi stata mia e io avessi pensato che tu non fossi di nessuno, in realtà eri già di qualcun altro. Non c’è cosa peggiore dell’illusione… per più notti mi sono addormentata su questo giaciglio con il sorriso, ho chiuso gli occhi con la tranquillità di chi ha seminato e attende, sicuro, i frutti. Quelle volte, nel sonno, facevo soltanto sogni gioiosi e tu eri al mio fianco, Ariadne. Ingenua come una bambina, sono caduta nella trappola d’amore…


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Dipinto pomepiano ritraente la poetessa

Continuavo a esser sola ma il pensiero di una (certa) vittoria mi allietava finché non vi ho viste oggi… o Eros, dolceamaro tremendo demone! La mia Ariadne era in compagnia di un’altra ragazza, Berenice, più giovane di lei. In quel momento ho visto l’usurpatrice diventare Ariadne e Ariadne diventare Saffo… e io cos’ero? Un ammasso di gelosia e invidia nei confronti di una delle ultime arrivate al tiaso… lei, che credo non sappia nemmeno cosa significhi “fare l’amore”, era alla destra di Ariadne, lì dove credevo spettasse a me stare.

Ho provato invidia per Berenice, la provo tuttora. Lei è stata benedetta dagli dei… non so se abbia scelto o sia stata scelta da Ariadne, eppure era lì! Sei stata fortunata, Berenice! E tu, Ariadne, ingenuamente, ogni tanto, alzavi lo sguardo verso di me e sorridevi… ti accorgevi di me… ma il tuo sorriso non aveva nulla di quello che io, se fossi riuscita a trattenere la rabbia, ti avrei rivolto in risposta. E, così, ho fatto solo un cenno del capo mentre, dentro di me, c’era la guerra… le altre ragazze cercavano di parlarmi ma rispondevo solo a monosillabi… se rispondevo, non le guardavo in faccia perché, in quel momento, il mio sguardo era rivolto solo in una direzione… credo di non averle sentite neanche parlare perché le mie orecchie cercavano di captare altre parole… e la rabbia cresceva dentro di me e, ancora, attende di essere sfogata.

Eppure continuo ad amarti, Ariadne. Amo te e odio Berenice! Al solo pensiero, mi sento morire e, se mi domando cosa ne sarà di me, come riuscirò a convivere con questi due sentimenti così distanti tra di loro, non riesco a trovar risposta…