Racconto tratto dalla poesia "L'albatros" di Charles Baudelaire
È
una razza particolare quella di noi poeti. Quando viene pronunciato il nome del
nostro capostipite, Omero, un alone di leggenda sembra accompagnare quelle
cinque lettere, le labbra si fanno tremanti e il volume della voce si abbassa
leggermente quasi ad ossequio del sommo poeta. Tale fenomeno è apprezzabile
anche per tanti altri… penso a Virgilio, a Dante, all’Ariosto e così via… Sono
loro i sommi: poeti, filosofi e maestri, giocolieri delle parole e scrutatori
della realtà. Sono loro i vati, cui va tutta la nostra gratitudine e riverenza.
Grazie
agli insegnamenti di questi e tanti altri simili personaggi, abbiamo modo
quotidianamente di studiare il mondo e rappresentarlo con le parole. Loro ci
hanno insegnato a volare, a librarci da terra per osservare la realtà: da lì in
alto, come degli albatros, vediamo tutto (o pensiamo di veder tutto!) e siamo
in grado di affidare all’inchiostro le nostre sensazioni. Forse noi poeti
moderni non ci illudiamo di avere chissà quale titolo, non ci illudiamo di
esser ritenuti e definiti “maestri”, tuttavia non ci stanchiamo mai di volare.
Ancora,
il nostro volo è capace di proiettarci ben oltre la realtà. La nostra mente è
continuamente al lavoro. Siamo in una stanza, stiamo sorseggiando del tè con
degli amici ma la nostra mente è già volata fuori dalla finestra attirata da
questo o da quel particolare, da questa o quella parola. Così quella ceramica
cinese della nobildonna che ci ospita genera mille pensieri sulla provenienza
di quel vaso e la nostra mente è già in Cina e scorge attorno a sé soltanto
occhi a mandorla. Un signore piange la prematura morte di suo figlio e, oltre a
provare solidarietà e un gran desiderio di dargli conforto, non si può evitare
di soffermarsi a riflettere sull’eterno alternarsi di vita e morte.
Osserviamo
il mondo da una prospettiva privilegiata ma, spesso, questo privilegio
costituisce una maledizione. Molti sembrano non riservare più il rispetto che
ci compete, molti ci ridicolizzano, ci vedono come “diversi”. A volte abbiamo
la gobba, seguiamo mode stravaganti nel vestire, beviamo solo latte o assumiamo
sostanze dall’origine oscura. Questo ci rende “strani” agli occhi degli altri
che proprio non riescono a capire la nostra sensibilità, la nostra costante
osservazione e le supposizioni che ne derivano, le nostre abitudini che sono
sinonimo della libertà di determinare la nostra vita alla ricerca di un piacere
che altrimenti non troveremmo affatto. In fin dei conti, vogliamo essere felici
come ogni uomo desidera su questo pianeta.
Non
è, quindi, un caso che preferiamo farci da parte e librarci in un volo
solitario che segue le vie della fantasia. Lì creiamo il nostro mondo, lì
disegniamo milioni di mondi, incontriamo chi vogliamo, amiamo e siamo amati
senza problemi. Gli altri sorridano pure di fronte alle nostre “stranezze”! Noi
siamo albatros e dobbiamo necessariamente percorrere le nostre rotte aeree.
Questa è, allo stesso tempo, la benedizione e la maledizione del poeta:
straniero in patria e scarto della società, nonché viaggiatore libero di raggiungere
qualsiasi mondo tra quelli possibili.
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